martedì 15 ottobre 2013

Noi credevamo

Noi credevamo


Storico, durata 170'
Regia di Mario Martone
Soggetto: Anna Banti, Mario Martone, Giancarlo De Cataldo
Cast: Luigi Lo Cascio (Domenico), Valerio Binasco (Angelo), Luca Zingaretti (Crispi), Luca Barbareschi (Gallenga), Toni Servillo (Mazzini), Francesca Inaudi (Cristina di Belgjoioso), Guido Caprino (Orsini), Renato Carpentieri (Poerio), Ivan Franek (Simon), Andrea Bosca (Angelo), Edoardo Natoli (Domenico da giovane), Luigi Pisani (Salvatore), Stefano Cassetti (Rudio), Pietro Manigrasso, Pino Calabrese, Anna Bonaiuto (Cristina di Belgjoioso), Andrea Renzi (Sigismondo di Castromediano)
Produzione: Italia, Francia 2010
Produttori:  Conchita Airoldi, Carlo Degli Esposti, Giorgio Magliulo, Patrizia Massa

Un percorso filmico – storico dentro il capolavoro di Martone

Il grande affresco di Mario Martone sulle vicende del nostro Risorgimento offre uno sguardo intenso e non convenzionale su una pagina di Storia che la ricorrenza dei 150 anni ha riaperto con vigore (per quanto l’uscita del film solo casualmente abbia incrociato le ricorrenze istituzionali, in quanto è frutto di un progetto nato nel 2005). Martone e l’altro sceneggiatore Giancarlo De Cataldo (autore, tra l’altro, del romanzo “I traditori”), attraverso un accurato studio di documenti e fonti, anche iconografiche, ripercorrono momenti spesso dimenticati che hanno preceduto e seguito l’unità d’Italia del 1861. 
In questo resoconto vogliamo seguire passo passo le vicende proposte nel plot, approfondendo i riferimenti storici e gli eventuali anacronismi volontari o meno, ricordando che il romanzo di Anna Banti, da cui prende il titolo il film, è si fonte di ispirazione specie per gli ultimi due episodi, ma viene poi liberamente abbandonato e rielaborato nella personale rivisitazione del regista napoletano.
Il film è suddiviso in capitoli, corrispondenti ad altrettanti periodi storici. Si va dal prologo, ambientato intorno al 1828 e si conclude con le vicende dell’Aspromonte e la fallita spedizione di Garibaldi intenzionato a liberare Roma, del 1862. 



Prologo
Il film di Martone ha un incipit potente che ricorda per certi versi quello di “1860” di Alessandro Blasetti (film del 1934). In quel caso cavalieri borbonici vagavano tra le macerie di un paesino siciliano straziando i corpi di patriottici picciotti vittime della repressione. Nel prologo di Martone, tra le strade di un paese del Cilento si muovono le truppe borboniche a caccia di congiurati che nel luglio 1828 si ribellarono alla dominazione straniera. Il paese è in fiamme, un uomo catturato è impiccato.


Sullo sfondo di queste vicende fanno la loro comparsa i tre personaggi principali del film, i tre amici, Angelo, Domenico e Salvatore che ci condurranno attraverso più di trent’anni di storia italiana. Come nel resto del film, i tre personaggi, frutto della fantasia dell’autrice del romanzo, ma ispirati a tre cospiratori realmente esistiti (Domenico ricorda l’omonimo Domenico Lopresti; Angelo ci riporta a Giuseppe Andrea Pieri e Salvatore è ricalcato sulla figura di Antonio Sciandra), si muovono di fronte a situazioni e personaggi che sono stati protagonisti del Risorgimento italiano, ma che, in buon parte, i libri di storia (specie quelli scolastici) hanno dimenticato.


Il rastrellamento borbonico di questa apertura ci conduce, come detto, a fatti del luglio del 1828. La setta dei Filadelfi tentò nel cilentano un colpo di mano che non ebbe buon esito. I cospiratori dovettero chiedere aiuto ai briganti della zona ed in particolare ai fratelli Capozzoli (che sono i personaggi che vediamo fuggire sulle barche inseguiti dai borbonici). 


Il padre di Angelo ha collaborato all’insurrezione, il padre di Domenico ha nella propria stanza immagini massoniche e di Murat che lasciano intendere un suo coinvolgimento (nelle intenzioni dei congiurati vi era quella di chiedere la costituzione e l’aiuto della Francia). Il maresciallo Del Carretto cattura i fratelli Capozzoli, li fa fucilare e mostra la testa di Domenico Capozzoli su una picca in segno di monito per future azioni del genere. Nel film l’azione è consequenziale, con brevi ellissi che lasciano intendere uno svolgimento rapido dei fatti; nella realtà tra la fuga dei Capozzoli e la loro cattura passò quasi un anno durante il quale i fratelli insieme ad uno degli organizzatori della cospirazione, un certo Galotti, si rifugiarono in Corsica. Il Galotti sparì dalla circolazione mentre i briganti decisero di tornare nella loro terra e qui, nel giugno del 1829, vennero catturati e giustiziati.



Salvatore
A distanza di qualche anno dall’insurrezione cilentana, i tre protagonisti, in luogo imprecisato, giurano fedeltà alla causa mazziniana e compiono il rito di affiliazione alla Giovine Italia (vedi aggiunta alla fine della recensione). Nelle parole dei tre, pronunciate staccando un ramo di ginepro, c’è la sostanza della formula canonica di affiliazione per quanto non si pronunci il testo integrale della stessa. Per ovvie esigenze di ritmo, Martone riassume i contenuti della formula originale, sottolineando che i tre giurano di consacrare la propria vita alla causa di un’Italia INDIPENDENTE, LIBERA E REPUBBLICANA. La delusione finale di Domenico è la sostanziale lontananza dell’Italia unita da quella che il giuramento mazziniano aveva prefigurato e il “noi credevamo” del titolo sta in questo ribadito distacco tra le aspirazioni di buona parte dei protagonisti del Risorgimento e gli effetti dell’azione dei Savoia avviata nel 1860.




Dopo il giuramento alla Giovine Italia entriamo nel salotto della principessa Cristina Trivulzio di Belgjoioso, nel cuore di Parigi. Secondo le indicazioni del regista la scena si svolge nel 1833 nella casa in Place de la Madeleine, ma storicamente non tutto torna... 


All’indomani della Rivoluzione di Luglio del 1830, che aveva condotto sul trono Luigi Filippo di Orleans, figlio di quel Filippo Egalitè che aveva fatto parlare di sé durante la rivoluzione del 1789, la Francia presentava una monarchia costituzionale che poteva diventare un modello per tutti i liberali e i patrioti d’Europa. Esuli dalla Polonia, dall’Italia e da altri luoghi d’Europa erano giunti a Parigi con la speranza di ottenere appoggio politico ed economico alle loro aspirazioni.


Il salotto della Belgjoioso era il ritrovo di personalità di varia provenienza che ben rappresentavano il fermento rivoluzionario europeo. Nel film Cristina tiene banco tra i suoi ospiti dissertando sulle illusioni legate all’aiuto francese alla causa italiana. La principessa sembra scettica e stanca di sperare in un soccorso straniero alquanto aleatorio. Tra gli ospiti, che sono intrattenuti dal compositore Bellini che suona un estratto dalla sua opera “I Puritani”, compaiono anche Angelo e Domenico.


Questi si appartano con la donna, latori di notizie da parte di Mazzini. La giovane principessa ha perfettamente capito le intenzioni dei due e rompe gli indugi accennando ad un certo Filippo Strozzi, che altro non è che il nome di battaglia dello stesso Giuseppe Mazzini. Domenico accenna al finanziamento avvenuto tre anni prima da parte della contessa nei riguardi della setta dei Veri Italiani e chiederebbe un ulteriore aiuto per le prossime imprese del fondatore della Giovine Italia. Stando così le cose l’azione dovrebbe essere databile al 1835 in quanto la setta dei Veri Italiani fu fondata da Filippo Buonarroti, vecchio giacobino, entrato in contatto con lo stesso Mazzini, nel 1832. Buonarroti romperà con Mazzini a causa delle sue idee rivoluzionarie che prevedevano, in caso di successo, una breve dittatura popolare sull’esempio della Rivoluzione giacobina del 1793 – 1794.


La principessa oltre che disillusa dalle recenti sconfitte dei moti settari italiani, si dice impossibilitata a qualsiasi aiuto finanziario a causa del blocco del suo patrimonio attuato dagli austriaci a Milano.


A questo punto la narrazione si frammenta. Un salto narrativo ci porta al Teatro de La Comedie Francaise dove Cristina, Domenico e Angelo assistono alla rappresentazione del Le roi s’amuse di Victor Hugo. Il pubblico non pare apprezzare la rappresentazione di un re mostrato all’interno di un bordello e Cristina prova a difendere il valore dell’opera. Tale episodio sembra riferirsi alla prima parigina dell’opera di Hugo che si risolse in un fragoroso insuccesso: tale prima si svolse nel 1832!



Salvatore incontra il giovane Antonio Gallenga, detto Procida (le parole d'ordine del loro incontro sono "Martirio e Resurrezione" a sottolineare il carattere religioso dell'impresa patriottica che Mazzini stesso non mancherà di ribadire), un mazziniano fuggito da Parma dopo i moti falliti del 1831 ed intenzionato a compiere un attentato alla vita di Carlo Alberto, il re savoiardo accusato di aver compiuto il grande tradimento del 1821 (chiamato Re Tentenna per l’appoggio alle Costituzioni del 1821 poi ritirato su pressione degli austriaci e dello zio Carlo Felice). Gallenga racconta di essere stato a casa di Mazzini a Ginevra (incontro che le cronache fanno risalire al novembre 1833) ma questo non tornerebbe con il fatto che un uomo presenti il giovane come appena fuggito da Parma. 


Salvatore è a Ginevra da Mazzini per ricevere il pugnale che Gallenga (che Mazzini definisce uomo della Provvidenza) dovrà volgere contro Carlo Alberto.



Dopo un breve intermezzo in casa della Belgjoioso eccoci in un caffè di Parigi dove Angelo e Domenico incontrano alcuni rivoluzionari francesi discutendo dell’imminente invasione della Savoia preparata da Mazzini (febbraio 1834). Dopo un’altra breve scena in casa Belgjoioso ci troviamo nella nebbia delle campagne piemontesi. Intorno ad una cascina si sta cercando Gallenga che dovrebbe compiere la sua azione contro Carlo Alberto, ma il giovane parmense non si fa trovare. In seguito Domenico ed Angelo discutono del presumibile fallimento dell’impresa savoiarda visto che metà dei volontari al servizio di Mazzini, che avrebbero dovuto invadere il Piemonte, sono stati fermati dalla polizia svizzera. Altro incontro di Angelo e Cristina a Parigi, quindi nella nebbia della Savoia si intravedono i mazziniani in fuga e un Mazzini sconsolato a cui viene comunicato il fallimento dell’impresa. Chiusura in casa della Belgjoioso dove Angelo accusa la principessa di non voler aiutare la loro impresa. La donna si difende confermando il suo scetticismo sulla sollevazione di un popolo che andrebbe prima educato e sulla inutilità di imprese condotte “con il pugnale”.




Come si vede situazioni e luoghi si affastellano in un susseguirsi sempre più convulso di scene che disorientano lo spettatore quasi quanto la nebbia fa nei confronti dei volontari mazziniani. La verosimiglianza e la congruenza storiche lasciano il passo alla evocazione di una rottura tra le intenzioni dei mazziniani, il sostegno esterno sperato e le difficoltà intrinseche dovute alla repressione. Domenico e Angelo rappresentano la forza delle idee democratiche che non trovano però un adeguato sostegno in chi, vedi la principessa, già scottata da precedenti insuccessi, non vede prospettiva in azioni isolate ed estemporanee. Il salotto e le cascine, i caffè e le campagne nebbiose sono i due poli opposti di una dialettica rivoluzionaria che non sembra trovare un equilibrio sintetico.



Domenico
L’episodio della detenzione di Domenico nel carcere di Montefusco, quello che direttamente prende spunto dal romanzo di Anna Banti (romanzo che ha una forte aderenza storica perché nasce sulla base delle vicende del nonno della Banti, Domenico Lopresti che fu un vero cospiratore e sulle memorie del patriota salentino Sigismondo Castromediano, realmente detenuto nel carcere di Montefusco), si apre sulle immagini dei detenuti nel cortile della prigione mentre la voce off di Domenico spiega gli accadimenti degli anni precedenti. Siamo nel 1852 e il protagonista non può che ripercorrere gli anni delle illusioni del 1848 – 49, terminati per lui con la cattura da parte dei borbonici. Domenico, rivolgendosi alla sua cara Cristina ricorda l’illusione “dell’Italia che nasceva…l’Italia unita, libera e repubblicana” che gli eventi di Roma avevano prefigurato. 



La stessa Cristina si era distinta nel 1848. La principessa di Belgjoioso in effetti, nel 1848 sbarcò a Napoli e con un gruppo di volontari prese parte alle giornate di Milano. In seguito, nel 1849, prese parte alla difesa della Repubblica Romana organizzando il servizio delle ambulanze militari. Nelle parole di Domenico l’entusiasmo per quei momenti memorabili: “La Repubblica a Roma. Il Papa fuggito con la sua corte di vescovi, Mazzini che promulga il suffragio universale, le terre consegnate ai contadini…” Ma il sogno si infrange con la cattura del giovane che avviene quando questi sta per raggiungere le truppe di Garibaldi. Quest’ultimo il 20 novembre del 1848 raggiunse Roma per difendere la città dalla reazione delle potenze europee coalizzate (Spagna, Austria, Francia) e combatté con eroismo fino alla caduta della Repubblica del 3 luglio 1849.


In carcere con Domenico, nella rigida divisione sociale che vuole i nobili e gli intellettuali da una parte e i poveri dall’altra, si ergono le figure di Carlo Poerio e Sigismondo di Castromediano. Entrambi di idee liberali (ricordiamo le idee democratiche di Domenico), aspirano a veder risolta la questione italiana con la nascita di un paese unito sotto una monarchia costituzionale. Il primo fu un patriota arrestato nel luglio del 1849 e condannato a 24 anni di lavori forzati. Il secondo, che nel film è colui che lascia per un periodo il carcere abboccato da Ferdinando per costringerlo a chiedere la grazia, venne catturato nel 1850 e condannato a 30 anni di carcere. Dopo varie peripezie Castromediano fu eletto deputato al primo Parlamento italiano ( e Domenico nel fnale sarà a Torino proprio per cercare l’amico ed ex compagno di detenzione, ormai onorevole). 



L’episodio del carcere di Montefusco si chiude di nuovo nel segno della speranza: Poerio legge un giornale sul quale è riportata la notizia dell’invio dei bersaglieri da parte di Cavour in Crimea. Siamo nel 1855 e le truppe piemontesi in quell’estate si distinsero nella battaglia della Cernaia guadagnando alla causa italiana le simpatie di Francia e Inghilterra. Il brindisi tra i detenuti chiude emblematicamente la scena: “Al Piemonte! A casa Savoia. Alla guerra di Crimea! A Vittorio Emanuele re d’Italia! Evviva!” Al brindisi partecipa un rassegnato Domenico, le sorti dell’Italia sono sempre più lontane dagli ideali per cui ha combattuto fino a quel momento (ed è chiaro, altresì, come il flm dimostri che le sorti della nostra unità si legarono indissolubilmente alle convergenze di interessi politici interni e di complesse strategie diplomatiche e di rapporti con le nazioni europee).





Angelo
Questo terzo episodio ci proietta al 1856. Siamo a Londra e Angelo osserva con Crispi i dettagli di una mappa dei sotterranei di Notre Dame in cui si dovrà svolgere il battesimo del figlio di Luigi Napoleone; si sta progettando l’attentato all’imperatore di Francia, ma Crispi non vuole un bagno di sangue, specie di vittime innocenti. Nel prosieguo entriamo in casa di Mazzini, ormai esule da anni in Gran Bretagna, accompagnato dalla fedele Emilie Ashurst che raccoglie per lui, nei locali della città, i fondi per l’attività rivoluzionaria. E’ qui che fa il suo ingresso, all’interno di un caffè svizzero, il tenebroso e fascinoso  Felice Orsini che sarà il personaggio chiave dell’episodio. Da subito l’Orsini si mostra in contrapposizione con l’ideologia mazziniana, parlando di una propria rivoluzione.




Presso il capezzale del rivoluzionario polacco Stanislaw Worcell (uno degli eroi della rivoluzione polacca del 1830, socialista, esule a Londra dove fece amicizia con Mazzini che volle al proprio capezzale anche in virtù delle comuni radici cristiane) si ritrovano tutti i personaggi che, con i loro abiti e portamenti dimessi ben rappresentano una idea di rivoluzione logora e perdente.



Tra questi compare anche un giornalista del Daily News, un certo Mariottti, che altri non è che il patriota Gallenga, rifugiatosi a Londra sotto falso nome. Angelo seguirà l’uomo, che avrebbe dovuto uccidere Carlo Alberto, fin a casa sua e qui discute con lui dello scandalo suscitato dal suo articolo in cui ammetteva l’interesse per la Giovine Italia a far fuori Carlo Alberto. Per Gallenga Mazzini è un buffone che ha mandato al sacrificio centinaia di uomini senza avere il coraggio in prima persona di compromettersi (Mariotti è inquadrato di riflesso su uno specchio quasi a sottolinearne la doppiezza). Angelo vuole fare chiarezza sul presunto tradimento di Salvatore in Savoia e finisce per minacciare Gallenga. Questi sparirà dalla circolazione; nella realtà egli finì i suoi giorni negli Stati Uniti dove proseguì la sua carriera giornalistica.


Vi è un breve accenno di Crispi all’impresa di Pisacane (nell’estate del 1857, l’ex ufficiale napoletano sbarcò con poche centinaia di uomini, tra cui galeotti liberati a Ponza, a Sapri con la speranza di rivoltare il sud contando sull’aiuto contadino. Fallì miseramente e dovette uccidersi). 
L’attentato a Napoleone III è ormai pronto e protagonisti si preparano. E’ la notte del 14 gennaio 1858 di fronte al Theatre de l’Opera di Parigi. Angelo Cammarota, Felice Orsini, Carlo Rudio e Antonio Gomez si muovono tra la folla nei pressi del teatro. Rudio ha intravisto Crispi (dunque egli ha a che fare con l’attentato?), Cammarota viene preso da un poliziotto in borghese, mentre Orsini lancia la bomba contro la carrozza dell’imperatore che si salva grazie al fatto che la berlina è blindata. Gli attentatori vengono catturati e processati. Orsini e Cammarota vengono condannati a morte mentre Gomez viene spedito ai lavori forzati nella Cayenna francese e Rudio è condannato all’ergastolo. 




Nella realtà l’attentato a Napoleone III vide coinvolti 5 uomini uno dei quali è rimasto ignoto e non venne mai catturato. Cammarota, che è frutto dell’invenzione di Martone, sostituisce in realtà Giuseppe Andrea Pieri che, al pari di Orsini venne ghigliottinato. Quest’ultimo fu veramente liberato dal carcere di Mantova (nel 1856) grazie all’aiuto di Mazzini, come ribadisce la Ashurst, ed entrò in conflitto con lo stesso Mazzini una volta raggiuntolo a Londra. Sicuro anche il ruolo di aiuto esterno che svolse il fuoriuscito repubblicano Bernard. Rudio e Gomez sono le due figure che realmente aiutarono l’Orsini nell’attentato. Il primo veneto partecipò alle Cinque giornate di Milano e alla Repubblica Romana; il secondo, napoletano, si era precedentemente arruolato nella legione straniera.

L’alba della nazione
L’episodio finale, con una ellissi narrativa che salta le vicende finali della detenzione di Domenico e la sua liberazione, ci riconduce ad avvenimenti che il romanzo della Banti affronta pur con differenti situazioni che Martone risolve liberamente.
Siamo nel 1862, Domenico torna a casa, ritrova la madre e il fratello e, nel suo vagare attraverso le terre natie, ora divenute parte integrante della nuova Italia, rivede scene che non possono non ricondurci a quelle iniziali del 1828. Soldati, questa volta bersaglieri savoiardi, che devastano villaggi, deportano contadini, giustiziano in maniera sommaria, in quella che era una vera e propria guerra civile in corso tra “occupanti” (i Savoia) e “occupati” (i briganti). 



Domenico viaggia in carrozza e ha con sé un libro, “La guerra combattuta in Italia nel 1848 – 49” di Carlo Pisacane; il protagonista ha quindi con sé la testimonianza scritta, più diretta, dell’ultimo vero tentativo democratico insurrezionale. Quello che è avvenuto dopo sembra non appartenergli. Così anche la sua finale adesione al tentativo insurrezionale dei garibaldini sull’Aspromonte non risulta altro che una patetica presa di coscienza che quel sogno, infrantosi definitivamente nel 1849, si è spento e la Storia ha preso un’altra direzione. Ad arruolarsi con lui tra i garibaldini sbarcati a Melito, ci sarà anche Saverio, figlio del “traditore” Salvatore Tambasco, nonché disertore del regio esercito italiano.



Al di là degli aspetti più marcatamente bellici dell’azione descritta (il fallimento dello sbarco, il ferimento e la presunta morte di Garibaldi, che resta una figura in lontananza, un mito inarrivabile) è interessante l’inserto notturno, che vede i garibaldini riuniti in spiaggia alla vigilia dello scontro decisivo contro i bersaglieri; alcuni di loro inscenano brani della commedia di Giuseppe Rizzotto e Gaspare Mosca, I mafiusi della Vicaria, ed evocano le nascenti e future connivenze del neonato stato italiano con la mafia. Al di là dell’anacronismo della vicenda (tale commedia andò in scena per la prima volta soltanto nel 1863) è interessante come tale rappresentazione serva a ribadire il “tradimento” ideologico di alcuni personaggi se è vero che i garibaldini recitano il passo: “E’ Crispi, Crispi s’ ‘a fa cu’ ‘e mafiuse”. 


L’esecuzione sommaria dei disertori, tra cui Saverio, è un ulteriore tassello che Martone aggiunge per rendere ancora più chiara la chiusa dell’episodio e cioè l’invettiva di un Mazzini malato e provato dalle notizie giunte sull’insuccesso dell’Aspromonte: “E’ finito, il periodo dell’azione legale è finito, dobbiamo aprire quello dell’azione extralegale. Bisogna fare saltare in aria Rattazzi, il Re, il Parlamento…” . L’unità si è compiuta, la rottura con gli ideali del risorgimento mazziniano, altrettanto. Martone garantisce l’autenticità delle parole di Mazzini, pronunciate all’indomani della disfatta dell’Aspromonte e qui si chiude il “Noi credevamo” storico.



 Il finale si carica di un profondo senso simbolico con quel discorso che Crispi tiene in un palazzo Carignano, sede torinese del Parlamento, vuoto, alla presenza di Domenico che si nasconde ed ascolta la viscida oratoria di chi ha saputo trasformarsi da fervente democratico in accanito monarchico: “…Coloro che vogliono un’altra bandiera, dice Crsipi, non desiderano l’unità d’Italia. La monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe…”.
La chiusa del film lascia intravedere le future dinamiche della politica italiana, facile al trasformismo e al voltafaccia quasi programmatico, per quanto l’intero film alluda a più riprese all’Italia del presente, all’Italia post – unitaria, all’Italia del malaffare e della corruzione.



La sequenza dell’esecuzione degli attentatori di Napoleone III è stata girata all’interno del carcere di Saluzzo, in uso fino agli anni Settanta (e vi sono stati rinchiusi anche brigatisti come Curcio) con una scenografia che non ha camuffato le torrette in cemento, i vetri antiproiettile e le scale anti incendio a voler ribadire le assonanze tra vecchio e nuovo terrorismo. Ma compaiono anche luci al neon in un garage in cui si ritrovano Orsini e gli altri per progettare l’attentato a Napoleone e, in ultimo, una intera sequenza, quella dell’episodio finale con il dialogo tra Domenico e Saverio, si svolge all’ombra di piloni di cemento armato, segno evidente di un’edilizia contemporanea frutto di un abusivismo che ben sa evocare i mali della nostra Italia. 






Giuramento di affiliazione alla Giovine Italia

Nel nome di Dio e dell'Italia. Nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, caduti sotto i colpi della tirannide, straniera e domestica.
Pei doveri che mi legano alla terra ove Dio m'ha posto e ai fratelli che Dio m'ha dati per l'amore, innato in ogni uomo, ai luoghi ove nacque mia madre e dove vivranno i miei figli ?per l'odio innato in ogni uomo, al male, all'ingiustizia, all'usurpazione, all'arbitrio ? pel rossore ch'io sento in faccia ai cittadini dell'altre nazioni ' del non aver nome né diritti di cittadino, né bandiera di nazione, né patria ? pel fremito dell'anima mia creata alla libertà, impotente ad esercitarla, creata all'attività nel bene e impotente a farlo nel silenzio e nell’isolamento della servitù ? per la memoria dell'antica potenza ? per la coscienza della presente abbiezione ?per le lagrime delle madri italiane ? pei figli morti sul palco, nelle prigioni, in esilio ? per la miseria dei milioni.                                                                                               Io N.N.
Credente nella missione commessa da Dio all'Italia, e nel dovere che ogni uomo nato Italiano ha di contribuire al sue adempimento,
Convinto che dove Dio ha voluto che fosse nazione, esistono le forze necessarie a crearla ? che il Popolo è depositario di quelle forze; ? che nel dirigerle pel Popolo e col Po. polo sta il segreto della vittoria;
Convinto che la Virtù sta nell'azione e nel sacrificio ? che la potenza sta nell'unione e nella coscienza della volontà;
Do il mio nome alla Giovine Italia, associazione d'uomini credenti nella stessa fede, e giuro:
Di consacrarmi tutto e per sempre a costituire con essi l'Italia in Nazione, Una, Indipendente, Libera, Repubblicana;
Di promuovere con tutti i mezzi, di parola, di scritto, d'azione, l'educazione de' miei fratelli all'intento della Giovine Italia, all'associazione che solo può rendere la conquista durevole;
Di non appartenere da questo giorno in poi ad altre associazioni;
Di uniformarmi alle istruzioni che mi verranno trasmesse, nello spirito della Giovine Italia, da chi rappresenta con me l'unione de' miei fratelli, e di conservarne, anche a prezzo della vita, inviolati ì segreti;
Di soccorrere coll'opera e col consiglio a' miei fratelli nell'associazione.                                                                       ORA E SEMPRE
Così giuro, invocando sulla mia testa l'ira di Dio, l'abbominio degli uomini e l'infamia dello spergiuro, s'io tradissi in tutto o in parte il mio giuramento.

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